Cronaca,  Epoca Moderna

6.7.1495. La battaglia di Fornovo

6 luglio 1495 – L’esercito di Carlo VIII re di Francia è schierato lungo il Taro da Ramiola verso Noceto. Sull’altra riva, a Fornovo, Riccò, Ozzano e Oppiano, ci sono cavalieri, piccheri, arcieri e fanti della lega italica, mandati da Venezia, Milano e Mantova. A metà pomeriggio, proprio dallo schieramento italico partono attacchi da diversi punti: inizia la battaglia di Fornovo, scontro militare decisivo per le sorti della penisola nei secoli a venire. Si dirà che non ci sono vincitori, o che forse han vinto gli italiani, ma è una vittoria così di misura che di fatto l’Italia a Fornovo si perde per l’intera Epoca moderna.

Carlo, detto Petito perché molto basso, è sceso fin in Campania per conquistare il Regno di Napoli (all’andata, è passato da Parma e dalla Val Taro il 23 ottobre 1494 accompagnato da Ludovico il Moro, duca di Milano da due giorni). Venezia e Milano lo hanno agevolato, perché gli Angioini, signori del Meridione, al nord non stanno simpatici. Ma quando davvero il re francese trova la vittoria e osservata la crudeltà dei saccheggi cui sono sottoposte tutte le città che lungo il cammino non gli si sottomettono, i potentati italici decidono di mettere in campo un esercito che gli impedisca di tornare alle Alpi. A capo della Lega è posto Gian Francesco II Gonzaga, duca di Mantova.

I francesi risalgono la penisola fino alla Lunigiana, passano la Cisa, scendono per la Val Sporzana ed incontrano lo schieramento italico a Fornovo. Questo è stato schierato a difesa di Parma e per bloccare Carlo. L’impresa non sembra difficile, perché il Gonzaga ha almeno 15.000 uomini freschi, mentre al francese ne restano circa 10.000 in cattiva salute: da Napoli se ne erano andati quando era scoppiata la peste.

Chi combatte per l’Italia? Sono soprattutto mercenari, reclutati in tutta la pianura Padana e finanche in Albania.

Gian Francesco Gonzaga ordina di attaccare contemporaneamente l’avanguardia, il corpo centrale e le retrovie di re Carlo. Di mezzo c’è però il Taro, fiume ingrossato dalle piogge fuori stagione dei giorni precedenti. L’acqua e la corrente aiutano chi si difende e i francesi respingono sia l’affondo più a valle, impegnando anche le bombarde, che la carica della cavalleria pesante al centro, fermata dopo lunghi combattimenti. L’azione della cavalleria leggera sulla retroguardia pare vincente, ma parte dei soldati si lascia sedurre dalla possibilità di un facile bottino e si getta sulle salmerie di Carlo, per rubare i viveri e i frutti delle razzie fatte da questo.

La battaglia è davvero cruenta: muoiono più di 3.000 uomini; mille francesi e il doppio dalla parte della Lega. Probabilmente, sono più di quelli periti in tutte le campagne militari in Italia da inizio del secolo in qua. Niccolò Macchiavelli scrive: “Di sangue il fiume parea a vedello, / ripien d’uomini e d’arme e di cavagli / caduti sotto al gallico coltello”.

Il mancato successo dell’attacco è colpa dello scarso impegno dei soldati della Lega, come spiega anche il Gonzaga in una lettera alla moglie:

La bataglia de hieri cum li nemici como dal trombetto haveriti inteso fu crudelissima et tanto più quanto de li nostri ne sonno manchati homini assai de conto […]. Poi per la dio gratia ne semo salvati cum questo exercito se bene ne sono fugiti infiniti senza essere stati caciati da persona et maxime le fantarie che poche ne sono restate”.

A sera, temendo una seconda offensiva, Carlo si ritira dalle rive del Taro per accamparsi sulle colline di Medesano. Calate le tenebre, i contadini vengono a spogliare di abiti, armi ed effetti personali i soldati morti abbandonati sul campo. Contemporaneamente, il re basso ordina la ritirata e prende la via del Piemonte passando da Borgo San Donnino, raggiungendo Asti sette giorni dopo.

Carlo fugge e abbandona il suo tesoro, quindi la Lega festeggia la vittoria. Ma i francesi non sono stati davvero sconfitti, anzi, hanno avuto meno perdite e possono tornare a casa senza più fastidi. Di fatto, agli occhi delle potenze europee, questa battaglia dimostra una cosa sola: che in Italia non ci sono eserciti forti, che i padani non si sanno difendere, che le ricche città a sud delle Alpi possono diventare facile preda. Così, non appena Carlo VIII rientra a Parigi e si diffondono notizie sulla battaglia di Fornovo, altri sovrani iniziano a far piani per la conquista di pezzi dell’Italia.

A breve, vari stranieri verranno a comandare sui territori dell’Italia, i cui centri e uomini per diversi secoli non potranno che accettare la sottomissione.

Fra i morti eccellenti della battaglia si trovano un Ranuccio Farnese, la cui famiglia acquisirà Parma pochi anni più avanti, Bernardino da Sanvitale figlio del conte di Sala Baganza, Francesco Terzi di Sissa, Luca Terzi nipote del condottiero Ottobuono, Zan Zorzo da Colorno, il notaio Sertorio Beliardo, già ambasciatore di Parma, Pietro Paolo Rossi di San Vitale, Francesco dal Fra di Parma, tutti quanti agli ordini di Gian Francesco Sanseverino, che per primo aveva affrontato i francesi, già il giorno prima della battaglia, cercando di contrastarne l’acquartieramento.

Fra i molti beni presi ai francesi, c’è anche un elegantissimo baldacchino decorato in oro, con lo stemma dei Valois ricamato al centro. Un soldato riesce a portarlo fino in città assieme a varia argenteria, nonostante sia ferito ad un piede. I canonici della cattedrale comprano quel baldacchino per 100 ducati d’oro. Per molti anni, nelle feste più solenni l’altare maggiore del Duomo viene coperto con quel baldacchino preso nella battaglia di Fornovo.

Battaglia di Fornovo, olio su tela di Ilario Spolverini, 1690 ca., Galleria Nazionale di Parma
Battaglia di Fornovo, olio su tela di Ilario Spolverini, 1690 ca., Galleria Nazionale di Parma
La battaglia di Fornovo nella Galleria delle carte geografiche dei Musei Vaticani
La battaglia di Fornovo nella Galleria delle carte geografiche dei Musei Vaticani, 1580-1585

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