
25.3.1983. 46 ore in un crepaccio del monte Bianco
25 marzo 1983 – Sul ghiacciaio del Gigante, monte Bianco, un ragazzo parmigiano vaga al buio, fra nevi e strapiombi, senza bussola, orologio né torcia. Roberto Fava, 22 anni, impiegato di banca quando non è sui monti, scalatore per passione, sa che la vita del suo amico Claudio Grenti di Fornovo, dipende solo da lui.
Roberto e Claudio sono partiti lunedì da Parma per stare una settimana al rifugio Torino e compiere alcune escursioni. Ma i primi giorni trovano un tempo orribile che li costringe a stare fermi. Finalmente, il giovedì si vede il sole e i due, zaini in spalla, si mettono in cammino verso la vetta del Bianco, con l’idea di bivaccare a quota 4.000.
Alle 17,30 sono in cima e poco dopo iniziano la discesa. Ma sale la nebbia e perdono la direzione, allora girano per risalire di nuovo. Alla fine decidono di passare la notte sulla vetta, per ritornano a scendere al mattino di questo 25 marzo.
Ora c’è bello; prendono la via normale e là sotto, in basso, già scorgono i loro sci, lasciati in posizione strategica durante l’ascesa. Ma la montagna non gli è amica e improvvisamente si alza il vento, inizia a nevicare: è una bufera che le previsioni meteorologiche non avevano annunciato.
I due amici continuano ad avanzare, ma anche se sono le 9 del mattino non vedono più nulla. Tutto a un tratto: aaah! È Claudio che precipita nel crepaccio. Roberto, legato a lui, pianta la piccozza nella neve e tira la corda. Lui non cade, ma Claudio è già volato per molti metri.
Roberto prova a far risalire il compagno, ma la neve è fresca, fragile, lo scalatore scivola, la piccozza non tiene. Per quanto si dia da fare, Roberto non riesce a far risalire l’amico. Allora si urlano, ma non si dicono addio, anzi, che si separano per poco, per chiamare aiuto, che torno subito Claudio, stai calmo, abbi fede, presto, torno presto, subito. Sì Roberto, vai Roberto, torna presto, io sono qui, corri, corri e non lasciarmi. Ma c’è troppo vento, e Roberto la risposta dell’amico non la sente. Non importa, sa quello che deve fare e si mette in marcia.
Ma dove sta andando? La tormenta copre tutto, confonde tutto. Anche Roberto rischia di cadere in un crepaccio. Si salva. Vaga a destra e sinistra. È fortunato: dopo due ore e mezza, trova gli sci e capisce di essere nella direzione giusta.
Smette di nevicare e torna la nebbia. Roberto perde ancora la strada. È completamente disorientato. È stanchissimo. Si ferma, scava una buca, la copre con sci e zaino e resta là sotto finché non torna il sole, cioè a pomeriggio inoltrato. Allora finalmente capisce dove deve andare. Al rifugio giunge a mezzanotte.
Non si è mai fatto prendere dal panico. Ha ripassato mentalmente tutte quelle lezioni seguite al CAI di Parma. Non si è messo in pericolo, così i soccorsi sono allertati e si possono organizzare le ricerche di Claudio.
Claudio che sta sempre nel crepaccio, una buca di 50 per 60 centimetri a 25 metri di profondità e 20 gradi sotto zero, con una spalla fratturata. Ma nella disgrazia è stato fortunato: non è rimasto appeso, è arrivato sul fondo. Rimasto solo, ha provato a risalire, usando due chiodi e un rampone – l’altro lo ha perso nella caduta –, ma con un braccio solo, dopo pochi metri scivola ancora in basso. Anche lui non si fa prendere dalla paura, e nemmeno dallo sconforto. ogni tanto guarda in alto, verso il cielo: riuscisse a vederlo sereno, allora sarebbe certo che i soccorsi sarebbero in caccia.
E finalmente, la domenica mattina ecco che i soccorritori arrivano davvero. Sono passate 46 ore da quando Claudio è precipitato. Anche la squadra di soccorso ha dovuto fare i conti col maltempo. Vento a 120 chilometri orari e la solita maledetta nebbia. Hanno tentato già sabato mattina di partire alla ricerca del disperso, ma il vento ha sollevato in aria il primo della cordata e ha letteralmente congelato il naso di un altro. Ferma tutto, bisogna aspettare.
Quindici guide esperte, fra le quali un parmigiano, l’istruttore CAI Elia Monica. E a Chamonix ce ne sono altre 40 pronte a unirsi se servisse. Ma non ora: la conoscono abbastanza, quanta montagna, da sapere che bisogna far sfogare il cielo, prima di riprovare a partire.
Ripartono la domenica alle 4,30 del mattino e stavolta il monte Bianco permette loro di arrivare fino al punto dell’incidente. Alle 8,00, Claudio sente tirare la corda cui è ancora legato. I soccorritori si calano dall’alto e lo riportano su. L’avventura è finita nel migliore dei modi.

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Succede il 25 di marzo:

