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19.5.1553. Jacoba, l’amica di Ignazio da Loyola che non riuscì a diventare gesuita

19 maggio 1553 – Ignazio da Loyola, non ancora santo ma già venerato come tale in mezza Europa, manda uno dei suoi gesuiti a casa di una vedova parmense. Lei è Jacoba Sanvitale (si firma così, anche se Ignazio scrive Giacoma) e vuole a tutti i costi diventare una donna gesuita.

Jacoba ha offerto a Da Loyola le rendite del suo notevole patrimonio per costruire un collegio gesuitico femminile a Parma.

Da giovane, Jacoba, marchesa nata a Zibello, è stata sposata con un cugino di Scipione, più vecchio di lei di 35 anni, Giangerolamo. Ma questo è stato ucciso da altri parenti nel 1536, sei anni dopo le nozze. Lo ammazzano davanti a tutti, di fronte al portone di una chiesa, perché ha voluto donare alla sua Jacoba ricche terre vicino a Borgo San Donnino, sottraendola così al controllo del resto della famiglia.

Rimasta sola, la donna scopre una vocazione religiosa. Nel 1540, a Parma conosce il gesuita Pietro Favre e resta affascinata dalla sua predicazione. Vuole immediatamente aderire al nuovo ordine gesuitico. In una lettera del primo settembre 1540, lo stesso Favre informa Da Loyola che a Parma c’è una una vedova “deliberata de expender todo el suyo y à si misma en lo que yo le hubiera mandando para cualquier obra pia” (decisa a spendere se stessa e tutte le sue ricchezze per una qualunque opera pia che lui le consiglierà).

Ma non basta: Jacoba si mette in testa di diventare lei stessa una gesuita. Anzi, di creare un intero ramo femminile per la Compagnia di Gesù, aprendo un apposito collegio nella sua città. Così inizia a scrivere lettere a Ignazio da Loyola, che però di donne nella Compagnia non ne vuole. Il gesuita che in questo 19 maggio 1553 viene inviato da Jacoba, ha proprio il compito di spiegare alla marchesa che il suo desiderio non potrà essere esaudito.

In una lettera del 10 dicembre 1550, Jacoba scrive a Ignazio chiedendo che le mandi un padre gesuita per istruirla e “ch’habia auctorità de consacrarme al suo santo collegio”, promettendo obbedienza e facendo notare che “jo son solla, son libera, et ho casa”.

In un’altra missiva del 2 giugno 1553, la marchesa rinnova l’offerta di mille scudi – 50 all’anno per 20 anni – per la costruzione di un collegio femminile, soldi frutto “dela donacione che me fece la bona memoria del marito mio” e ricorda “che lè più de tredici anni chio fui chiamata da Dio per bocha del M. don Pietro” Favre.

Da Loyola, poche settimane dopo (24 giugno 1553) risponde che “adesso la Compagnia non ha sappositi [persone fidate] de poterse mandar a Parma; et non conviene al instituto nostro haver cura di monache”.

Jacoba non demorde. Insiste. Al gesuita venuto per incontrarla, Elpidio Ugoleto alias Pietro Fiamengo (che lo riferisce in una lettera del 3 luglio 1553) racconta che quando si trovava a Roma, il gesuita Giovanni Battista Pezzano le aveva detto di sì, che si poteva essere gesuite donne. Ma da Loyola risponde ancora che non se ne parla proprio, “et lei, havendola letta, molto si ha mostrata turbata”.

Effettivamente, all’inizio della sua attività, da Loyola era stato aiutato economicamente dalla catalana Isabel Roser, che a Barcellona aggregò un gruppo di donne sottoposte all’autorità dello stesso Ignazio. Nel 1545, papa Paolo III permette a tre di loro di professare voti come appartenenti alla Compagnia di Gesù, ma tre mesi dopo impone la revoca di quei voti, non volendo Ignazio un ramo femminile del suo nuovo ordine. Nel 1554, inoltre, pure Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Carlo V, riesce a farsi gesuita, ma solo con un falso nome da uomo. Sono eccezioni, che nei 450 anni successivi non si ripeteranno.

Ma Jacoba questo non lo accetta e continua a inviare istanze a da Loyola. Ancora il 7 luglio 1553 ripete a Ignazio di voler diventare monaca e che proprio lui “me unirà un giorno cum Cristo”.

Jacoba non può arrendersi anche perché lei, senza aspettare l’ok da Roma, un gruppo di donne lo a già costituito! Nel 1549, già aveva fondato una sua Compagnia delle Donne Spirituali! E quel che vorrebbe è una ufficiale aggregazione ai gesuiti. Quelle donne hanno inizialmente avuto come maestro spirituale il gesuita don Giovan Battista Viola. La Pallavicino stabilisce il quartier generale in una casa padronale al Castelletto (dove ora sta il casello autostradale di Fidenza) e adatta altre quattro proprietà ad uso di donne nubili come lei ispirate dalle regole gesuitiche.

Quando, nell’ottobre 1550, don Viola è chiamato ad altri incarichi, da Loyola riceve una petizione per il suo ritorno (negato) sottoscritta da 13 donne e 19 uomini, compreso il vescovo Luca Cerati, che dicono che un gruppo di “povere e misere convertite” è rimasto abbandonato.

Ignazio da Loyola pare ammirato dalla determinazione della vedova. In una missiva del 17 febbraio 1554, la chiama “Mia signora nel nostro Signor”. Eppure, un collegio di gesuite non sta proprio fra i suoi progetti. Alla fine, c’è una sorta di compromesso: “si faccia in casa, acciò siano adimpite li buoni et santi desiderii che Dio Nostro Signore dà a Vostra Signoria”. Come dire: continuate a fare in casa quello che non vogliamo sia fatto in forma ufficiale.

Jacoba non demorderà mai. Ma non è sufficiente. La sua Compagnia delle Donne Spirituali si scioglierà quando lei non ci sarà più; la marchesa Pallavicino muore nel 1575. La Compagnia di Gesù, invece, non avrà mai un ramo femminile, almeno fino al 2024.

Ignazio da Loyola, ritratto di Giuseppe Peroni, 1750 ca., chiesa di San Pantaleone, Medesano
Ignazio da Loyola, ritratto di Giuseppe Peroni, 1750 ca.,
chiesa di San Pantaleone, Medesano

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