15.5.1943. Fucilato dai partigiani di Tito
15 maggio 1943 – Sulle alture di Bioče, in Montenegro, poco a nord della città di Podgorica, a una decina di chilometri dal confine con l’Albania, infuria la battaglia. I partigiani del maresciallo Tito hanno attaccato le posizioni tenute dagli italiani. E fra i tanti soldati schiacciati dal fuoco c’è anche il parmigiano Marcello Pioli, sottotenente.
Pioli non dovrebbe essere qui. Pochi giorni fa gli è stata offerta una licenza, ma lui ha preferito rimanere con i compagni in divisa. È un convinto patriota, Marcello Pioli, pieno dell’impeto proprio dei suoi 22 anni. Giusto il giorno prima, nella sua ultima lettera agli zii a Parma – i genitori sono morti quando era adolescente – ripeteva:
“guai a perderci d’animo: ci pentiremmo poi di esserci abbandonati a sconforti non completamente giustificati”;
e in un’altra missiva a casa aveva scritto:
“La patria è tutto; per essa la nostra vita non deve contare; la nostra misera vita donata alla patria fa l’Italia immortale”.
Ci crede davvero, il giovane Pioli, e nella furia della tempesta va avanti gettandosi più volte nelle fauci della morte.
La Jugoslavia è stata invasa e smembrata dai nazi-fascisti nell’aprile 1941. In Montenegro è stato impiantato un regno fantoccio diretto da Roma. Ma l’occupazione ha portato all’immediata organizzazione della resistenza, la meglio strutturata in tutta Europa, dando il via ad una lunga guerra civile.
Marcello Pioli è arrivato fin qui con il 383° Reggimento di fanteria “Venezia”, dove si è arruolato volontario. Un reggimento di giovanissimi guidato dal colonnello Paolo Vercesi.
Nell’attacco dei titini, Vercesi muore, e con lui diversi altri ufficiali. In 48 ore di combattimenti, perdono la vita 400 soldati italiani, i quattro quinti del contingente. Il nostro Pioli si mette al comando dei superstiti e cerca ad ogni costo di aprirsi un varco per una ritirata. Pare quasi avercela fatta, quando una pattuglia jugoslava sorprende il gruppetto e lo cattura.
Pioli viene chiuso in una grotta con gli altri prigionieri. È l’inizio di un lungo calvario. L’esercito di Tito, pur vittorioso sul contingente italiano, deve ritirarsi prima della controffensiva tedesca. I soldati catturati sono spinti a marciare verso nord, fra le montagne. Un cammino fatto di avanti e indietro, per 23 giorni, lungo 650 chilometri, cambiando ogni giorno posizione, sempre fra i boschi. Una prova che costa la vita a molti altri uomini. Alla fine, dei tanti prigionieri restano solo sedici ufficiali e qualche decina di soldati semplici.
Poi, il 9 giugno, quando manca poco alla mezzanotte, arriva l’ordine di fucilare tutti questi superstiti.
Fin dal 1941, in Jugoslavia si susseguono efferati eccidi. Il comando fascista ha disposto di fucilare 50 civili per ogni italiano ucciso dalla resistenza; i nazisti ne ammazzano il doppio per ogni tedesco. Queste morti moltiplicano la lotta jugoslava, perché innescano innumerevoli faide, antica pratica ancora viva nei Balcani: sempre più persone combattono al solo scopo di vendicare i parenti trucidati facendo a loro volta dei morti. La terribile spirale sta ora per abbattersi anche sul parmigiano Marcello Pioli e gli altri ragazzi presi a Bioče.
Una mitragliatrice apre il fuoco su questo gruppo di militari disarmati e spossati. Uno solo si salva. Chi è? Proprio Pioli. Colpito alle gambe, resta a terra immobile fra i compagni ammazzati finché i titini non si allontanano. Poi si rialza e prova a trascinarsi il più lontano possibile. Passa poco che qualcuno se ne accorge. Gli sparano una seconda volta, alla faccia. Il proiettile gli rompe uno zigomo e la mandibola, ma ancora non è morto. Finge di nuovo di esserlo; forse è svenuto. Rimasto solo, un’altra volta solleva il corpo distrutto e strisciando e tirandosi avanti a forza di braccia, riesce ad arrivare fino ad una casa.
Qui abita una donna sola, che ha pietà di questo giovane sfigurato. Lo cura con quel poco che ha e lo aiuta ad arrivare fino a Nikšić – siamo ad appena 60 chilometri dal luogo della battaglia di metà maggio –, dove sta un comando tedesco. Ricoverato nell’ospedale da campo, Marcello muore su una branda due giorni più tardi, il 14 giugno.
Nessuna delle sofferenze subite lo fanno desistere dal suo dovere di soldato: l’ultima cosa che fa è scrivere un rapporto sugli eventi di questo orribile mese; un racconto scritto, perché con la mascella frantumata non può più parlare.