Cronaca,  Età contemporanea

12.1.1867. Torture nel carcere di San Francesco

12 gennaio 1867 – Francesco Cardamone, detenuto nelle carceri di Parma, racconta davanti a un giudice ciò che ha subito dalle guardie: di notte, nella cella di rigore, “mi posero una camicia di forza, mi serrarono i polsi, mi cacciarono un cencio in bocca, mi rovesciarono a terra, indi mi torturarono per le braccia e pel corpo. Chiesto da bere, mi si diede dell’orina, e mi si ruppe un recipiente sulla testa. Mi si strinsero le braccia, mi si venne coi piedi sul corpo, mi si calpestò. Io mi sentivo soffocare. Mandavo sangue da ogni parte”, le guardie “mi avean detto di voler farmi morire”. Questo Francesco resta otto giorni nella cella di rigore, prima di essere spostato e fatto visitare dal medico.

Perché tutto questo? Per aver spinto una guardia che gli aveva tolto il cibo che stava per mangiare.

Quella di Cardamone è la prima testimonianza dei carcerati torturati in San Francesco a Parma, nei primi anni del Regno d’Italia. Dopo di lui, altri detenuti denunciano gli stessi brutali trattamenti. Trattamenti oggetto di un processo aperto il giorno precedente a Firenze.

Nel processo, non si accusano le guardie responsabili delle torture, ma un giornale che in ottobre ha osato raccontarle, il fiorentino “Il Diritto”, subito querelato dal direttore del carcere Paolo Belmondi Quesada.

Il giornale è difeso niente meno che dall’avvocato Francesco Crispi, che pochi mesi dopo diventerà presidente del Consiglio.

Dopo Cardamone, testimonia il detenuto Francesco Lomanto, raccontando di aver “ricevuto una tortura con stringimenti di ferro alle mani ed ai piedi. Fui gettato a terra, calpestato, tormentato in mille guise”, supplicò che la camicia di forza “mi si allargasse un po’, ma invece il guardiano mi tormentò nel modo più barbaro e inumano”.

Il terzo detenuto torturato è Vincenzo Pellegrino: “alle 11 di notte entrarono i carcerieri con gli strumenti di tortura. Mi gettarono a terra, mi si lacerò, mi si tormentò; vi fu un punto in cui ero più morto che vivo. Dopo tre giorni mi si allargarono i ferri e nei tre giorni le guardie venivano di tratto in tratto a stringermi i legami”.

Il Diritto descrive lo strumento di tortura, “composto di cinghie: due di queste annodano mani e piedi; una cinge il corpo nella parte inferiore del busto; da queste ne partono due anteriormente. L’apparecchio viene stretto con tale violenza, e per tanto tempo sulle misere carni, da far cadere in cancrena la pelle, in guisa di vedersi scoperto i muscoli”.

Le ferite dei tre malcapitati sono confermate dai medici che li hanno visitati nei giorni successivi, che riconoscono i segni di stringimenti e di botte, soprattutto alla testa. Il dottor Dalla Turca afferma che in 14 anni di servizio al carcere, mai vide “prigionieri puniti in quel modo e con mezzi da portare simili effetti”. Il medico Terzi racconta: “Vidi il Cardamone, legato così strettamente e con le mani così schiave, che dovette strisciare per terra come rettile e spingere col viso un pezzo di pane contro il muro onde poterlo mordere”.

Tutti questi fatti risalgono al giugno 1866. Il direttore Quesada – provvidamente sostituito a Parma a fine di quello stesso anno – non può negare nulla. Ma prova a giustificarsi dicendo che il 3 giugno, in San Francesco c’era stato un tentativo di fuga di otto detenuti, coperti da una sommossa. Per questo alcuni carcerati erano stati legati con la camicia di forza.

Fra le accuse al carcere, c’è anche quella di distribuire un pessimo vitto: dentro alla minestra spesso si trovano vermi, scarafaggi e lumache! Mentre il vino è adulterato con acido solforico. Il capo guardiano Girolamo Brunero non trova miglior difesa che dichiarare: “la minestra generalmente è buona, quantunque molte volte vi si trovino entro degl’insetti”.

Il processo è breve. La sentenza è emessa già il 16 gennaio. I giudici confermano che i tre detenuti, per essere stati legati con cinghie e ferri, “ne ebbero lesioni alle spalle, alla vita, ai polsi ed ai piedi che produssero gravi conseguenze”. Però dicono che la parola “tortura” è eccessiva. Il giornale Il Diritto è assolto e la questione dimenticata. Del caso di Parma si parlerà ancora in una discussione in Parlamento, ma senza conseguenze. Quesada resta direttore di carcere fino al 1872, a Oneglia, e quando va in pensione il re lo nomina cavaliere.

Celle del carcere di San Francesco di Parma, ex monastero francescano, utilizzato come penitenziario dall’epoca napoleonica al 1992.
Celle del carcere di San Francesco di Parma, ex monastero francescano, utilizzato come penitenziario dall’epoca napoleonica al 1992.

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